La mia filosofia di vita è “Tappa ma felice!”, perché sono geneticamente inabile a mettere i tacchi. Però non sono una di quelle che hanno sempre le sneakers incollate ai piedi, un mollettone di plastica infilzato alla meglio sulla nuca e i vestiti impataccati.
Nessuna madre, e mi assumo pienamente la responsabilità di ciò che dico, per quanto soffocata da mille impegni dovrebbe ridursi come una clochard. Mai, neanche se ha partorito da cinque giorni. Eppure accade molto spesso; meno frequente è il caso di quelle donne che non rinunciano a mettere i tacchi persino durante la gravidanza. Questa strabiliante abilità mi incuriosisce oltremisura. Però ben vengano certi esempi, a patto di limitarsi ad ammirare con commosso stupore tanta determinazione, e non ad invidiarla ferocemente sognando magari che queste puriste del trampolo si spezzino le caviglie durante le loro eleganti scorribande. L’invidia è un sentimento orribile, anche se in certi casi può avere il suo bravo (anche se ingiusto) fondamento. Basta dare la colpa come al solito agli ormoni farneticanti della gravidanza e ci ripulisce la coscienza da ogni cattivo sentimento.
Considero le generalizzazioni come il Male Assoluto, detesto infilare chicchessia in uno scomparto ben definito e ancora di più catalogare l’umano comportamento così come si fa con i fascicoli in un faldone. Però è innegabile che la stragrande maggioranza delle donne tenda, volente o nolente, a rimandare a tempi migliori le cure che riservava a sé stessa prima di mettere al mondo la sua creatura.
Le sfumature di trascuratezza variano dalla tipologia “appena scampata da un disastro atomico” a “mi vesto ancora in modo decente e metto soltanto un velo di rimmel, di più non posso”. E’sano, fisiologico e assolutamente normale che ciò accada. Perciò, se in questo momento stai allattando tuo figlio infagottata in una maglia consunta e neanche troppo pulita, non sentirti l’ultima delle donne: è normalissimo. Quello che esula la prassi è se indossi la stessa maglia mentre lo stai accompagnando a scuola visto che frequenta la quinta elementare e ha già un accenno di baffetti sul labbro superiore.
Io sono stata a lungo una madre non dico trascurata, ma piuttosto easy going nel vestire. Adoro i tacchi, ma da quando nella mia vita è arrivato Alessandro riesco a sopportarli soltanto per pochissime ore. Il motivo è piuttosto logico, almeno per me: le calzature eleganti mal si accordano con le tenute sportive. Avendo partorito un bambino particolarmente impegnativo (cronicamente insonne, inappetente, capriccioso, mostruosamente testardo e vivacissimo) non avevo alcuna voglia né tempo di mettermi in tiro. Per arginare il suo sport preferito “Provo a lanciarmi sotto un TIR per vedere se infartua prima la mamma o il conducente del bestione” dovevo necessariamente vestirmi in modo adeguato. Non riuscire a chiudere occhio per oltre tre anni e mezzo, poi, avrebbe spento l’entusiasmo per fondotinta, rimmel, ombretti e compagnia bella persino a Lady Gaga.
Da un paio d’anni a questa parte la situazione è decisamente migliorata. Mio figlio è ormai un pezzo di ragazzino alto quasi quanto me, frequenta la terza elementare e ha perso buona parte dei superpoteri che gli hanno fatto conquistare il nickname “Superboy”nel mio blog. Ho perciò ripreso da tempo a respirare e soprattutto a camminare in modo più rilassato, una cosa che accade a qualsiasi mamma, anche se ovviamente con tempi variabili. Nonostante ciò, continuo ad evitare i tacchi perché lo accompagno spesso e volentieri in scorrerie fra prati fioriti, cacche di alano e piste ciclabili dove, francamente, agghindata di tutto punto non mi sento a mio agio.
Però… c’è un però. Sono finalmente arrivata a un punto in cui ho ripreso a vestirmi da donna, anche se saltuariamente. E’proprio questo il cliché più pericoloso che ti regala la maternità: quello di vederti difficilmente come una femmina. La colpa è attribuibile anche alla sequela di luoghi comuni che la gente ti vomita addosso con spensierata disinvoltura. Parlo di frasi come: “Oooooooh! Per essere una mamma ti mantieni ancora bene!” o anche “Cavolo! Come stai bene con quel vestito attillato! Non sembri mica una mamma!”.
Chiariamo una volta per tutte un concetto: sì, è vero, trascinarti dietro uno ( o più ) pancione/i per nove mesi, allattare, non dormire la notte e mangiare se e quando ti capita (di solito avanzi ipercalorici della pappa del pupo) non aggiunge certamente avvenenza al tuo corpo, ma non è detto che tutto ciò ti porti a diventare un clone di Barbamamma. Qualche magagnetta in più c’è, è innegabile, ma non ci trasformiamo di default in informi ricordi di quella che un tempo era stata una femmina.
Dicevo…Sono arrivata a un punto in cui ho ripreso a vestirmi da donna, anche se saltuariamente. E’ accaduto in particolar modo quest’estate, in una sorta di risveglio improvviso da un sonno primordiale. I particolari magari ve li racconto nel prossimo post, ammesso che qualcuno di voi abbia il coraggio di leggere nuovamente qualcosa di mio.
Concludo finalmente con una scelleratezza che potrebbe essere sicuramente annoverata fra le considerazioni che stroncano la femminilità di noi mamme. Sì, lo so, visto ciò che ho blaterato finora non dovrei abbassarmi a salutarvi con la battutaccia da osteria che state, ahivoi, per leggere. A volte sono dolorosamente incoerente, me ne rendo conto, ma tant’è… Eccola a voi, siore e siore: centimetro alla mano, queste sono le mie misure pre-Alessandro: 90-60-90 (wow! Una modella! Un passo indietro, per favore. Bene. Immaginatele spalmate su un donnino “alto” un metro e 59 centimetri. Fatto? Tutta un’altra cosa, vero?) Misure post-Alessandro: 90-70-90 E’dannatamente vero che diventare mamma ti cambia “la vita”.
foto di Massimiliano Liscia
Luana Troncanetti
Scrittrice per caso, schiava devota dell'ironia, demente informatica, logorroica incallita e mamma strafelice di Alessandro. Sono perennemente allegra, anche quando vorrei impiccarmi con la cinghia dell'accappatoio.
Nei miei articoli sproloquierò a caso fin quando non mi cacceranno dalla redazione. Al momento, potete leggere i miei post sul blog La staccata e su Genitori Crescono.