Bianca come il latte rossa come il sangue
Ci sono due motivi per cui un lettore compulsivo va a vedere un film di un libro già letto: parlare male del film, o rivalutare un libro che non lo aveva convinto. Un modo come un altro per dargli una seconda possibilità. Ho conosciuto Alessandro D’Avenia attraverso il suo blog. Non quello patinato della Mondadori, quello di blogspot, quello di tempi non sospetti. Quel blog era una miniera. Lui era una miniera. Ne veniva fuori un professore appassionato, molto preparato, motivato: un tipo più alla Robin Williams, per capirci. Un tipo capace di vedere un potenziale eroico in un branco di adolescenti.
Il professore del romanzo non può che essere lui. Non ne è il protagonista: è solo la pietra miliare della crescita di un adolescente. Direi che si è riservato un ruolo privilegiato.
Bianca come il latte, rossa come il sangue inizia con un fiume di pensieri di uno spensierato sedicenne, Leo: piccole certezze, per lo più fatte di qualche frase sentimentale appresa dalla TV, la passione per il calcetto, un amico,un grande Amore, una migliore amica (Silvia), molte insicurezze, due le categorie dei nemici giurati (genitori e professori), una sola certezza: “Non so perché l’ho fatto, non so perché mi sono divertito a farlo, non so perché lo farò di nuovo: la mia filosofia di vita è riassunta in queste luminose parole di Burt Simpson.”
Una tabula rasa insomma, nichilismo allo stato puro. Il Bianco, appunto. C’è di bello che Leo è un personaggio positivo: è simpatico in quel girare a vuoto nei suoi pensieri, ha ancora quella bontà e quegli slanci del bambino, ma comincia a poco a poco a capire che è ora di crescere.
Si innamora perdutamente di una ragazza della sua scuola: Beatrice, un concentrato di materia rossa incandescente e luminosa. Per la verità neanche la conosce, non ha il suo numero di telefono, e forse lei ignora completamente l’esistenza di lui. Alzi la mano chi a sedici anni non ha vissuto un amore così. Alzi la mano chi non ha pensato che quello fosse stato l’amore più totalizzante mai vissuto. E alzi la mano chi non ha avuto il/la migliore amico/a innamorata perso di lei/lui e abbia fatto finta di non accorgersene.
Purtroppo Beatrice è malata di leucemia, e il Dolore mette Leo di fonte alle sua fragilità, alla sua paura, alla vigliaccheria, e alle sue nuove domande. Mentre brancola nel Bianco della solitudine e della rabbia solo il Sognatore, giovane professore supplente a scuola, lo sprona a venire fuori, a non avere paura di sbagliare e di soffrire. “Solo quando abbiamo tatuato sulla faccia qualcosa di cui ci vergogniamo cominciamo ad avere una faccia reale.”
Con la giusta retorica e molto talento Luca Argentero insegna a Leo il valore della speranza. “A volte basta la parola di qualcuno che crede in te per rimetterti al mondo”.
Lentamente il romanzo cambia registro, segue l’evoluzione del personaggio, e i pensieri si fanno più corposi, toccano temi importanti come la Fede, i Sogni, l’Amicizia.
Se devo dirla tutta, i grandi assenti, in entrambe le versioni, sono i genitori. Nel romanzo qualcosa veniva concessa al padre di Leo: qualche discorso che cerca un punto di contatto con il figlio. Una famiglia come tante, nella quale ci si ritrova con un figlio adolescente, alle prese con la misura della propria autostima, con sentimenti mai provati prima, assetato di risposte, magari da contestare, ma con il quale non si è avuto il tempo né l’occasione per parlare di grandi temi, come il Dolore, per esempio, capace di dare senso all’amore, o come le Passioni che dovrebbero essere il sale di quella spensierata età.
Dal romanzo al film, e viceversa, troverete delle differenze: il libro non è certamente il copione del film, che si prende parecchie libertà rispetto all’originale. Il cinema punta sul lato emozionale: la colonna sonora dei Modà e il fascinoso Luca Argentero fanno il resto. Un prodotto seducente, una regia dal ritmo serrrato, rivolto al target degli young adult senza essere banale. Non solo sentimenti allo stato puro, ma temi caldi per ragazzi che hanno voglia di sognare e di scoprire chi sono.
Filippo Scicchitano rende davvero giustizia al suo personaggio: fresco, leggero, con una simpatica cadenza romana. Non se ne è parlato abbastanza, ma c’è la partecipazione di Flavio Insinna nel ruolo del padre di Leo; e poi le due protagoniste al femminile, Aurora Ruffino e Gaia Weiss, entrambe davvero brave nell’interpretare la rassicurante Silvia e l’inarrivabile Beatrice, nomi non certo scelti a caso. E poi c’è Torino, e la sua Mole: non è un particolare da poco.
Non vi svelerò la trama, per quella c’è il libro, o il film se preferite, ma vi lascio con una delle frasi finali del romanzo:
In fondo, tutta la vita non fa altro che ritagliarti un vestito multicolore, a costo di tanti notti insonni, notti di rimasugli di altre vite cuciti insieme. Proprio quando ci sentiamo più poveri la vita,come una madre, sta cucendo per noi il vestito più bello.
Gabriella D'Ippolito
Mi chiamo Gabriella D'Ippolito. Bibliotecaria per passione e per professione. Sono mamma di tre bambini.
Nel tempo libero faccio la moglie, la manager per gli eventi mondani dei miei figli e la lettrice compulsiva. Vivo con la consapevolezza che, nonostante tutto, questi sono i miei anni migliori.